In un contesto in cui la crisi capitalistica mondiale sembra intensificarsi e mentre la socialdemocrazia europea, guidata dallo strapazzato Hollande, organizza in comunione con la Destra la sottomissione dei lavoratori d’Europa alla regola dell’austerity, la Sinistra o sarà anticapitalista, o semplicemente ne uscirà a pezzi. Il caso francese mostra che il sostegno sociale della Sinistra oggi è rivendicato con successo dall’estrema Destra, in ascesa ovunque in Europa, dove sta venendo meno la distinzione tra Sinistra e Destra, parlando di fatto in modo “antisistemico” e convincendo milioni di lavoratori che il loro futuro contro il sistema è il nazionalsimo: la precedenza dei propri diritti su quelli degli stranieri e, in ogni caso, il sostegno dei “loro” capitali nazionali contro quelli degli altri paesi europei. Quanti hanno sentito la filellena Marin Le Pen durante la trasmissione televisiva del suo ammiratore I. K. Pretenderis, e chi ha visto chi ha votato il Fronte Nazionale la scorsa domenica, hanno avuto una buona occasione per verificare le cose sopra dette.
Dunque, nel contesto di una crisi capitalista che probabilmente è destinata ad acuirsi presto, e quindi partendo da un’urgente necessità di una politica anticapitalista (quando potrebbe essere più attuale una politica di questo tipo?), è necessario valutare il primo bimestre del governo guidato da SYRIZA – dalla trattativa e il fronte interno alla situazione del partito. Al punto in cui ci troviamo, non è utile approfittare di debolezze reali o drammatizzare i compromessi; tuttavia, non è utile nemmeno l’indifferenza verso il consenso nei sondaggi per i provvedimenti governativi, cioè il trasferimento della politica del partito al governo.
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I primi due mesi del nuovo governo hanno costituito un difficile equilibrio, tra un doloroso compromesso in un’atmosfera di pressione asfissiante e un insieme di importanti iniziative sul fronte interno (crisi umanitaria, 100 rate, prima abitazione, nuova ERT, carceri, questione migratoria). Tuttavia, l’evidente importanza di queste iniziative, come anche la dichiarazione rincuorante che il governo preferisce pagare stipendi e pensioni invece del debito, non basta a cancellare l’assenza di politiche anticapitaliste di SYRIZA, e conseguentemente anche del governo. Lo abbiamo visto in vari casi: il coinvolgimento, nella squadra per la trattativa, di malfamati tecnocrati dell’antico regime; il rifiuto di una rottura dei “vincoli” per paura di un “Armageddon”; il rinvio del ritorno dello stipendio minimo a 751 euro e la mancata abolizione della legge sulle domeniche lavorative, per timore di uno shock dei mercati; l’indifferenza del “legislatore” rispetto all’esperienza di autogestione di ERT3; il silenzio, al nostro interno, tanto su come viene affrontata la costante fuga di depositi bancari, quanto sull’”insicurezza creativa” nelle questioni lavorali e nelle privatizzazioni. Lo stesso vale anche per altre questioni, assolutamente critiche, delle quali non ci si occupa: ad esempio la partecipazione dei lavoratori e il controllo sociale nel settore pubblico, che darebbero una fortissima spinta a una riforma fiscale progressiva; la riorganizzazione del sindacato e il controllo del lavoro nelle imprese; la lotta alla disoccupazione, l’assenza di investimenti privati, che, come il profitto capitalista durante una crisi, rimarranno bassi per molto tempo; infine, ovviamente, l’urgente internazionalizzazione della lotta contro l’austerity.
Non è una questione di cattive proposte o di una certa inclinazione verso il compromesso. La mancanza di una politica anticapitalista per SYRIZA costituisce un “pensiero”, che dice all’incirca così: il nuovo governo non è stato eletto per organizzare il passaggio al socialismo, e questa questione non si pone neppure nella difficile situazione presente, ma è stato eletto come governo di “salvezza sociale”, per uno scopo particolare, dunque è necessaria una politica “pragmatica”: lotta alla crisi umanitaria, riattivazione dell’economia per mezzo del rafforzamento della domanda, tassazione progressiva. Al di là delle analisi marxiste, dunque, la reale pratica politica – lo si sostenga esplicitamente o implicitamente – non è altro che la politica keynesiana.
In questa concezione, che separa il pratico e l’immediato (politca neokeynesiana) dal medio-lungo termine (politica anticapitalista), guardando il secondo come una costanza teoretica, sembra che si incontrino due “blocchi” contrastanti all’interno di SYRIZA. Schematizzando: da una parte quelli che ritengono che sia vietato un tentativo di spezzare i “vincoli”, per rimanere nell’Eurozona; dall’altra quelli che da tempo cercano un ritorno, anche in questo caso senza rotture, alla moneta nazionale. Paradossalmente, la seconda strategia è stata identificata come opposizione interna di sinistra al partito in SYRIZA – mentre la sua premessa, come afferma Kostas Lapavitsas, è una Nuova Politica Economica greca, basata sulle piccole e medie imprese. Il fatto che nell’ambito della crisi capitalista i margini di profitto (anche) di queste ultime passino da ulteriori reclami sul salario e sui diritti del lavoro – e mentre la realtà della povertà dei lavoratori costituisce il proemio di una nuova crisi umanitaria – sembra che non sia fonte di preoccupazione.
Giudicando in base alla decisione politica dell’ultima Commissione Centrale di SYRIZA e alla generale disposizione del partito fino ad ora, la maggior parte delle questioni prima esposte, mentre preoccupano tutti, non sono argomento di discussione tra i dirigenti, i membri e i corpi collettivi. Una questione è se (e dove altro) se ne dovrebbe discutere. Un’altra questione è che il nostro partito, cioè l’anima collettiva, deve impegnarsi – impegnamoci – a fare il possibile in breve tempo.
di Christos Laskos e Dimosthenis Papadatos-Anagnostopoulos
Fonte: rednotebook.gr
Traduzione di AteneCalling.org